Mortal Kombat, recensione, prologo discreto ma non cult
Il reboot di Mortal Kombat è un timido invito a ciò che potrebbe essere ma non è ancora, lungo preambolo senza potenziale da oggetto di culto
Sangue chiama sangue nel nuovo Mortal Kombat. Siamo nel Giappone del diciassettesimo secolo, quando Hanzo Hasashi conduce un’esistenza oramai appartata, semplice, con la moglie e i suoi due figli, uno appena nato. C’è però chi ha un conto in sospeso con lui, ossia Bi-Han, che intende vendicarsi per il proprio clan. Vendetta che, immancabilmente, si consuma nel più efferato dei modi. L’assassino crede di aver interrotto la linea degli Hasashi, ma così non è: nei giorni nostri Cole (Lewis Tan) è l’ultimo sopravvissuto, diretto parente di Hanzo. A Bi-Han non resta perciò che rimediare, a distanza di secoli, all’errore commesso.
Riprendere un brand come questo, uno di quelli che qualificano gli anni ’90, ponendosi come parte integrante della cultura pop del decennio, è un rischio non da poco. Viene non a caso disturbato James Wan, il Re Mida di horror e affini, che il nuovo Mortal Kombat l’ha prodotto, e rispetto al quale forse qualche dritta l’ha pure data. A mio parere dinanzi ad un progetto del genere una delle prime cose che ci si deve domandare non è tanto in relazione alla “fedeltà” rispetto alla fonte, quanto la sua resa in merito a due componenti fondamentali: in primis le scene d’azione/arti marziali; in secondo luogo la capacità d’imprimere quel quid che ne giustifichi l’esistenza, ossia una chiave degna del ricorso ad un remake o reboot che sia.
Va detto che su tale fronte Mortal Kombat è piuttosto deficitario. I combattimenti, che costituiscono delle fasi palesemente centrali, non brillano né per tecnica né per appeal. In poche parole, vuoi perché si tratta di coreografie piuttosto semplici, vuoi perché solo a tratti si avverte la veemenza degli scontri, lo spettacolo limitatamente a tali frangenti risulta contenuto. Sì, la componente grafica che a tratti affiora tende ad alzare almeno un po’ l’asticella, oltre che porsi in linea con una delle peculiarità principali della saga videoludica, ma è pur sempre troppo poco per rovesciarne le sorti. Ci sono scene particolarmente cruenti che lanciano il film quasi su un’altra dimensione, quella dell’horror stilizzato, se non altro perché operante nell’ambito di un fantasy specifico; tuttavia non si può parlare di momenti capaci di restare, se non addirittura iconici, tanto che il loro influsso tende a scemare già qualche sequenza dopo.
E qui ci si ricollega facile a quanto evidenziato rispetto alle prerogative di un progetto del genere. Alla prima trasposizione, quella del 1995, si può rimproverare molto, per così dire, quasi una parodia per certi versi, un’action-comedy, se si vuole, a tratti sgangherata, con quegli effetti speciali che, a riguardarli oggi, davvero si rivelano totalmente figli del loro tempo. Eppure c’è un elemento, su tutti, che diede spessore a quell’operazione e che, a tutt’oggi, non si può negare, ovverosia il potenziale cult che portava in dote. Scene come quelle di Scorpion e Johnny Cage in quell’evocativa foresta, così come l’irrompere di Christopher Lambert nella scena, nei panni di Raiden, da sole valevano il proverbiale prezzo del biglietto. Senza contare che quel film lì va anche saputo collocare, dato che fu la prima trasposizione da un videogioco a trovare un proprio centro, quasi dovesse inaugurare una stagione che, a conti fatti, non si è mai verificata, pur lanciando Paul W. S. Anderson nella nicchia dei titoli tratti dai videogiochi, demiurgo della futura e longeva saga dei Resident Evil.
La versione 2021 contempla per lo più i limiti di quella prima, fortunata incursione, senza però condividerne certe virtù capitali. Ovvio che oggi la componente visiva sia più pulita, performante, poiché nel frattempo è intercorso un quarto di secolo di avanzamento tecnologico, tale per cui una tenuta d’alto livello la si considera un must, cioè il punto minimo da cui partire, quantunque si tratti pur sempre di un’opera da 55 milioni, un terzo rispetto a prodotti che da questo punto di vista oggi troneggiano indisturbati. Nondimeno si fatica a portarsi dietro granché, il che rappresentava a priori una delle sfide più impegnative, visto pure che i venticinque anni sopra evocati valgono non solo in rapporto ai mezzi ma pure ad un immaginario esponenzialmente più saturo rispetto al contesto di metà anni ’90.
In ultima analisi, credo che il malus forse più determinante del nuovo Mortal Kombat stia nella sua struttura, che è quella, né più né meno, di un prologo e nulla più. Un preambolo di quasi due ore, con al centro la vicenda di un tizio (Cole) che deve difendere la propria famiglia, laddove il suo avo, Hanzo, ha analogamente fallito qualche secolo prima. Il resto è condimento, tra l’estro citazionista di un Kano australian-style carico a molla ed un generale appiattimento di tutti i comprimari, che non brillano sia per scrittura che per recitazione (poco rilevano chicche per aficionados come l’indizio su Nightwolf).
Questo è forse l’aspetto che più contraria, specie quando, intorno a metà corsa, lo si coglie in maniera inequivocabile: fin lì c’è la curiosità, tenuta desta il giusto, l’invito più che dignitoso a seguire un discorso che non ci s’immagina elaborato ma almeno contrassegnato da un tenore discreto. Poi però quell’odore, quei sentori di operazione tutt’al più apripista, già rivolta al dopo, a ciò che potrebbe venire qualora gliene venisse data l’opportunità, si concretizza in un rush finale che punta tutto su un solo cavallo, ossia lo scontro conclusivo. Scommessa quanto mai sbagliata, perché questo Mortal Kombat, soprattutto alla luce delle premesse, doveva necessariamente reggersi sulle proprie gambe, anziché elargire promesse nell’ottica di una serialità che, lato cinema, si rivelando vieppiù ingombrante.
Mortal Kombat (USA/Canada, 2021, 110 minuti) di Simon McQuoid. Con Jessica McNamee, Ludi Lin, Hiroyuki Sanada, Lewis Tan, Tadanobu Asano, Josh Lawson, Mehcad Brooks, Joe Taslim, Chin Han e Sisi Stringer.